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CITTA’ MINORE – Andrea Flego – Campanotto Ed. 2006

 

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Presentazione

 

di Piervincenzo Di Terlizzi

 

 

 

 

 

 

Viaggiare, tornare

 

Si comincia da Praga, perché questa raccolta è un viaggio, letterario prima di tutto, e come tale innescato dall’irrompere, in mezzo ai gesti della vita, della forza rivelatrice della reminiscenza. Ecco dunque

 

Strana mela

– malá strana – aperta

melograna voci

salivano al castello,

 

dove le vie della città minore dichiarano l’opzione fondante del viaggio: lo stare ai bordi della storia ufficiale, la scelta della ricchezza dei margini, con il loro mescolarsi di voci, di possibilità d’evocazione, di apertura. I suoni s’incontrano e fanno sprizzare illuminazioni, la parola poetica ne asseconda la forza nel dominio sicuro della forma metrica, della strofa, e, contemporaneamente, nello spazio dato all’allineamento simultaneo delle varianti.

 

La strada piega verso Occidente, portandoci nella terra del passaggio e dell’imbarco, l’Irlanda di San Brendano, presenza che, con l’Uccello Narratore, ritma le scansioni interne del testo. Irlanda centro della parte più nettamente dominata dalla scelta della lingua inglese, Irlanda groviglio di trame sinesteticamente variopinte,

 

                     Sound-smelling

 deep-coloured

souls from afar

will be heard

 

From any

Grafton Street

of any

lesser town:

 

qui si verifica, da subito, la conferma della polifonia aperta nelle città minori, polifonia come strada maestra per ascoltare le voci profonde dell’umanità.

 

Il viaggio prosegue, inevitabilmente, verso l’America: inevitabilmente, perché è il viaggio di un occidentale nella sua cultura, nella sua memoria letteraria. Nelle terre  d’approdo della nostra avventura, ancora viva è l’attenzione verso le apparizioni della residualità come fonte inesausta di rivelazioni:

 

A difesa del caos /rubato

a metro in Yerba Buena/ sfida

l’oblìo un cartone:

                                                                  why lie (I) want beer!

 

(con la franca dichiarazione dell’ homeless che rivendica l’insondabile diritto della scelta individuale, ed i mostri che vi si possono connettere).

 

Luogo di raccolta di tutte le voci del mondo, d’altro canto Altrove per eccellenza e per tutti,  l’America è lo spazio ideale per percepire – come consonanza d’esistenze, senza alcuna smanceria municipalistica – i segni dell’affratellamento dato dalla comunanza di origini,

 

Occhi Rubinum Histriae respiro

di scoglio ti sei perduto

Johnny frastornato

di squali ardesia fra terra e mare

 

Nella dimensione del sogno, anticipata da un esplicito Metalogo, si apre il nucleo centrale della raccolta, laddove l’autore si sposta a sondare la stessa possibilità della poesia, nelle sue motivazioni fondanti, concentrandole nel testo più dichiaratamente speculativo,

 

Stimmung d’oltredolore

d’essere/nihil essere/

tutt’uno – fiore

del perdersi del ricercare –

 

Mansuete lonze/ali

arruffate d’incanto

vaghiamo di cielo

in cielo senza più ritorno

 

Sazie

di questa

luce di questo

presente:

 

qui trovano ricetto le ambivalenze dell’esperienza umana, saldate dai richiami interni alla dimensione del movimento, che è viaggiare, vagare, perdersi. Oppure, ancora,  il fondo di mestizia, individuato nel testo appena citato, diviene il perno del desiderio, che spinge la ricerca poetica, intesa come scandaglio della parola, mai però disgiunta da un solido dato esperienziale, mai, insomma, finalizzata alla propria auotoesibizione:

 

L’ancora triste

del desiderio ricurva

immergo a scandagliare

porpore inanellate di parole

 

 

Avrei voluto ancora

scoprire storie imparare

tormenti arse vividità

che si rincorrano

 

Oltre il fondo di senso e di parole trovato, o desiderato, ciò che si fa strada, insomma, è il desiderio di raccontare. Desiderio che spinge dunque a tornare a casa – la casa, s’intende, matrice della ricerca poetica: Praga, fugata, trasformata in Rugolo di Sàrmede, dove, come Štĕpán il pittore, consumare ciò che rimane della vita

 

– A salire la grazia

                                                   del ciliegio come a morirvi

                                                   arduo cogliendo il frutto

                                                   per donarlo ai bambini –

 

La conquista del viaggio è dunque la dimensione della continuità generazionale del comunicare, e soprattutto del cercare di farlo sapendo quanto ne sia arduo il lavoro: tutto questo non produce, in accordo con le coordinate del viaggio, nessuna forma di vanto. Anzi, la raccolta si conclude di nuovo col monaco e con l’ineffabile Uccello che si congedano con la fiducia di chi ha dalla sua una buona storia:

 

                          – D’averci accolto aedi

                          non avrai a pentirti

                          perché qualcosa

                          dunque ti lasciamo

 

                          del nostro

                                         raccontare -.

 

Qualcosa, ovviamente, da vivere e raccontare ancora.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dediche e ringraziamenti

 

Dedico questo libro ai miei affetti più cari, e tra questi a Ivana, mia compagna di vita e di avventure geografiche e intellettuali, e ai miei figli. Lo dedico a Gianluca che se ne stava andando a studiare lontano proprio quando ho iniziato a scriverlo, lasciando in me un cogente vuoto antrale“, una “empty nest syndrome”, e che nel frattempo ha mantenuto intatta la sua curiosità per il sapere. Lo dedico anche a Margherita, che negli anni di gestazione di questo libro è passata dai giochi ad uno sviscerato amore per l’America Latina e alle canzoni di Fabrizio De Andrè suonate al violino con passione. Lo dedico anche a Lorenzo che nel frattempo ha abbandonato i Pokemon per la tastiera di Cubasis, i forum di Harry Potter, e divoratore di romanzi, è membro onorario della casa Griffondoro del collegio di Alta Magia di Hogwarts per aver imparato fin dalla prima infanzia che draco dormiens numquam titillandus.

Questo libro è nato anche grazie ad altre persone che in questi anni hanno arricchito con il loro esserci la mia vita e la mia poesia. Lo dedico a Tiziana, lettrice curiosa e appassionata,  a cui devo alcune di queste pagine, ad Heléna di Bratislava, che ha intravisto un regno verso cui non sa volare, a Štĕpán  Žavrel, che non ho potuto conoscere di persona, ma la cui presenza ho avvertito nelle case di Sàrmede, mia patria d’elezione di questi anni, ai musicisti di strada di Grafton Street a Dublino, a tutti gli homeless che ho incontrato a Boston, New York, Washington e S. Francisco, a Gianni Giotta,”Johnny”, del Caffè Trieste di S. Francisco, e a molti altri.

Un grazie di cuore a quanti hanno letto con attenzione, competenza e interesse il manoscritto, aiutandomi a renderlo più essenziale, pulito e incisivo e incoraggiandomi a pubblicarlo.

Tra questi un grazie particolare va a Piervincenzo Di Terlizzi  e a Pino Roveredo, per la loro attenta e preziosa lettura della prima versione di queste poesie, a Christina Manolescu, scrittrice d’oltreoceano, che da Montreal ha realizzato an attentive, rigorous and delicate proofreading delle poesie in inglese. A Cristina Perissinotto di Ottawa,  poetessa guerriera ed esperta di città invisibili, per l’implacabile revisione e per l’amore che dimostra verso TellingBirds’ Island; senza il suo cruciale incoraggiamento Città minore sarebbe forse rimasta invisibile…

Devo infine dire  grazie a Guido Benedetto, la cui mano preziosa e il cui cuore d’amico hanno commentato con il disegno le mie poesie.

Una dedica particolare poi a Layla e Tequila, adolescenti de charactér di razza canina, perché mio figlio Lorenzo non possa lamentare che David Clement-Davies abbia dedicato il suo libro “La visione” ai suoi amati cani e invece io no.

 

 

                                                                                                                   L’autore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“… Sono proprio fortunato. Ho trovato una casa         

                                                                            come non potevo desiderare meglio nella

                                                                            tranquilla via di Oujezd. Là mi raggomitolerò

                                                                            come un bambino nel suo cantuccio misterioso e

                                                                            nessuno, nessuno saprà più niente di me!…”

 

(Da I racconti di Malá Strana di Jan Neruda)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prologo

 

 

 

Il Monaco versò

neumi

nell’aria laudano

nella tazza

 

                               – Fuochi

                               boemi faville

                               negli occhi –

Carezzò austero

l’Uccello

Narratore e

incominciò:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I.

 

 

Strana mela

– malá strana (1) – aperta

melograna voci

salivano al castello

 

Cespichi inascoltati

d’un’ala già

cosparsa di pensiero

– a fiotti – ineluttabile

 

Trine avemmo

di fuoco… /fuoco

per Venceslao/ gradini

d’un barcollare/europa

 

Ori si danno

gocce opache dal cielo

strano frutto d’oriente

grimaldello nel ventre

 

– malá strana – cogente

vuoto antrale

d’inedia per

questo frutto

 

Solo frutto

che ormai

a cogliere

è maturo

 

__

(¹) Parte piccola, città minore, quartiere di Praga

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

II.

 

 

 

Sentimi il cuore

tuffato nell’orgasmo

di ciarlatani medici

alchimisti

 

Senti il mio cuore

arroccato tra neumi

e smottamenti                /Jana

Palacha námĕstí/ la piazza

 

Stento a sentirti l’anima

imbarazzata al guado

d’un dubbio-clignotant

graffito nei palazzi

 

/Where is the real art/

 

                …ma forse pensa già

a un qualche nuovo St’astny

con l’anima in vendita

da re-incarnare in-fida

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

III.

 

 

 

 

Uno spirito

a zigomi nel tempio

inerpicava tra

selciati d’addio

 

Essere nudità

– ninfee di forme

azzurre – alla pianura

volgono inapparenti

 

Ma ancora noi

tendiamo mani

alla riva – ciminiere

del drago – e al brulicare

 

Di là dove

si mostra un brulicare

dal ponte spezzato (1)

osceno di rossori

 

E sporca

gli occhi

costringe

l’infinito

 

 

__

(¹) ponte sul Danubio a Veszprem, tra Ungheria e Slovacchia, bombardato e mai ricostruito

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV.

 

 

Dove

hai lasciato il velo

mentre il tuo cuore mi toccava

i piedi

 

Forse

soltanto a mezzo

sulla bocca a confondere

perle d’attesa

 

Altro

non ho da darti

che un volteggiare inquieto

di petali e sorprese

 

Polvere

di pensieri a impastare

un giorno un’ora

un niente

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V.

 

 

Questo lenzuolo

sul capo getterei

al tuo fantasma

per vederlo

 

Giullare a notte

nei meandri

mutevoli

del sonno

 

Carezza di tessuto

ad annullare il mondo

a riempirlo di sogno

non più perduto

 

Goccia sarà – segreta –

resina profumata

che ti ravviva

il tronco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VI.

 

 

Al ballo ti ho

contato questa sera

trentadue tuoi

misteri silenziosi

 

Trentadue giorni

mal spesi trentadue

guglie del

tuo castello

 

E dopo il ballo

alla via lattea

giunsero i cammellieri

a contarci le stelle

 

Ma sui nostri pastrani

arabescati non vedevano

più che una stella

un solo desiderio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Metalogo I

 

L’Uccello Narratore

condusse allora

il Monaco

Brendano

 

                          – Di bramosia

                               d’oceano invaso

il cuore –

 

Nella città

minore – aedo

tra gli aedi – tra musici

di strada

 

a raccontare …

 

 

 

 

 

 

VII.

 

 

 

                                    People breathe

along the banks’ coppering sunset

bounced back from bridge

to bridge                         the lesser town

 

Hither and thither

pleasant nods wave

farewell to any

passers-by

 

                          A blue-eyed Garda

with fluorescent care soothes

the fears the troubled gaze

of a tiny utterly silent child

 

                                    Maidcourting

fiddleplaying blossom

in the lesser town

as delicate banshees (1)

drink themselves

into a hellish stupor

 

A crush of people within

an apnoea of space

 

                     Sound-smelling

 deep-coloured

souls from afar

will be heard

 

From any

Grafton Street

of any

lesser town

 

____

(1) le banshees sono spiriti femminili della cultura celtica irlandese e scozzese; esse emettono un lugubre urlo, presagio di morte.

 

____

Gente respira/ lungo il tramonto a rame delle sponde/ rimbalzato di ponte/ in ponte la città minore /Qua e là/ amabili cenni ondeggiano/ a salutare qualcuno /dei passanti/ Un vigile urbano occhi blu/ fluorescente premura/ carezza le ansie/ e lo sguardo intimorito/ di un fanciullo piccino completamente silenzioso/ Corteggiamenti/ violini, fioriscono nella città minore mentre/ delicate banshees si bevono il cervello in un infernale stupore/ Una calca di gente/ in un’apnea di spazio

Anime/ che odorano di suoni/ colorate di profondo/ da lontano/ si sentiranno/ da ogni/ Grafton Street/ di ogni/ città minore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VIII.

 

 

 

Far-gazing Celtic eyes

flagging up screams

from the ocean waves

fair boundary in the west

 

Bewitching tale of Monk Brendan

and his holy crew

singing of foggy seas

toward TellingBirds’

 

island (¹)

               An Dàingean (²)

mysterious glimmering bridge

extreme border to our

land of narrow villages

 

Deep Celtic woman eyes

here perhaps…

I should be swept away

by love…

 

here…

               perhaps…

 

___

(¹) Il Monaco Brendano prese il mare con la sua ciurma, dall’ovest dell’Irlanda, esplorando l’oceano e giungendo

anche all’Isola degli Uccelli Parlanti, che qualcuno ha creduto di identificare con l’America.

(²) An Daingean, nome gaelico di Dingle, penisola dell’ovest dell’Irlanda.

 

___                         

Celtici occhi che fissano lontano/ grida a raccogliere segnale/ dalle onde dell’oceano/ leggiadro confine all’ovest/

Fascinosa leggenda del Monaco Brendano/ e della sua sacra ciurma/ che canta i mari nebbiosi/ verso l’Isola/ degli Uccelli Narratori/ An Dàingean/ scintillante misterioso ponte/ limite estremo della nostra/ terra di stretti villaggi/ Celtici occhi di donna profondi/ qui forse…/ avrei dovuto/ innamorarmi…/qui…/ forse…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IX.

 

 

When the memories

pierced through

your smile brightening

the night

 

like the flashing of glass

there was a feeling

a sweet lingering

glance across America…

 

Something

that’s warm

and forbidden –

the touch

 

of your hand

secret

whisper

of hope

 

 

 

 

 

___

Quando i ricordi/ trafissero/ il tuo/ sorriso rischiarando/ la notte /come un lampeggiare/ di vetro,sopravvenne un’emozione/ un dolce indugiare/ dello sguardo attraverso l’America…/ Qualcosa/ che era calore/ non permesso -/ il tocco/ della tua mano/ segreto/ brusìo/ di speranza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

X.

 

 

L’artista e il suo nudo

luce implorano ormai

e silenzio. Perchè donna-leggenda

ti mostri caleide… sospesa

 

Perchè ancora gli incolti capelli

s’avvolgono in juta tribale quasi

un tonfo-danzare nel limbo proprio

sotto la terrazza del party

 

 

– Nido innesti nel nido pensiero

annidato a pensiero specchio

a specchio confondi: it’s Ameri…

(it’s Ameri…) it’s Ameri… (it’s Ameri…) … it’s America…

 

 

E tu donna-leggenda ne godi

e cupisci negli occhi e nel ventre

carne soda /sweet-smelling/

 

 

…il baratto a concludere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XI.

 

La tua chitarra a spruzzi

va a inumidire quel roco candore

di quando – un po’ più

femmina – cantavi

 

Ventun lune a sobbalzo

pupille fisse all’ovest

sono arrivati ignoti

cavalieri d’insaziabile umore

 

Natiche a frollo il cuore

– hanno – sfibrato per la caccia

riempiono di monete la tua stella

favo d’inchiostro e fiele

 

A difesa del caos /rubato

a metro in Yerba Buena (1)/ sfida

l’oblìo un cartone:

                                                                  why lie (I) want beer! (2)

 

 

 

__

(¹) Yerba Buena Garden, S. Francisco

(²) Perchè mentire voglio birra!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XII.

 

 

 

 

A Giovanni Giotta

gestore del Caffè Trieste di S. Francisco

 

 

 

 

 

Occhi Rubinum Histriae respiro

di scoglio ti sei perduto

Johnny frastornato

di squali ardesia fra terra e mare

 

E il vento gela

dove la gente porta

i dolori all’incanto

e le bestemmie al cielo

 

E il vento scioglie

in amori a manciate

caffè di stelle-buchi neri

– red Zinfandel – gocce di sangue nella baia

 

E l’icona sbiadita si perde già

allo sguardo ad ogni passo

fragile/ardore al banco

roco un farsi New Istria

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIII.

 

Miei occhi – dove sei – ali

di borchia rondine

del peccato che già

stinge in aurora

 

Mio pianto – dove sei – sparso

sul marciapiede cigolante

carrello della spesa

a tenerti la vita

 

– Dove sei – non ti piango

soldato lanterna ti piango

a consumarsi libera

nel viola dei capelli

 

Fiaccola – dove sei – d’una sete

sgualdrina Berkeley ansante

libertà – vita comunque –

piaga on the road crudele

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIV.

 

Quale dio

stringe la gola roca

di feritoie al duplice

vulcano

 

                          Big bang

d’occhi e parole

mute Cindy… goodbye!

etere – al cellulare – di frammenti

 

 

Quale dio

cinge d’assedio

questa gente – dèmoni/

figli accolti –

 

Come in croce

il capo reclinano

morenti goodbye… Mark!

torri d’urla infuocate

 

                          I love you…

 

…smorza la voce

il cellulare – onde

fievoli a lutto -…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Metalogo II

 

Brendano il vecchio

sedette un poco

fissi

gli occhi/rugiada…

 

– Morire…

 

                                                       …amare… umori

                                                        di petali sfiorati –

 

Poi… lasciò il canto

all’Uccello

Narratore… bevve

alla tazza muto e

 

pregando si assopì…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XV.

 

 

Coglievo trasognato a uno a uno

frutti e fiori di serra opalina

e m’affannavo a inserire monete

nella fessura umida del cosmo

 

E sedevi a invocare insolente

zattere a nolo

squassate dalle rapide ignorando

– grande – il canto del fiume

 

E perchè mai celare tra le foglie

trappole di profumi pali

a punta la notte riaggraziati

dall’inseguirsi d’un gioco virtuale

 

Eppure anni luce/silenzio cercavamo

tracce nella memoria infinitesime

                                                             …e dentro la mia bolla di sapone

– stavi –

a danzar sulle punte…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XVI.

 

 

 

Perchè non me l’hai detto

che la notte

gelava partigiana

il tuo battito d’ali

 

Che il vento martoriava

con lamine di sale

il tuo terso planare

vespertino

 

Alla fontana t’incontrerò

dove danzano gli anni

intingono le dita

gridano in faccia al buio

 

Devoto riempirò

d’acqua la ciotola

alla tua sete e se vorrai

mi vestirai di mani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XVII.

 

 

Questo verso ho cercato

 per te tra parole impastate

e nessuna                     cavalle impazzite

pareva augurale

 

Pur se dentro il forziere

delle notti mi sono

rivolto alle stelle

quelle notti che corrono

 

dense                                         e ove mai

il raccolto mio

urlo del tempo

oltraggia la luce

 

ma ora a squarciagola               confondo

alla tua                                    la mia sete

che si scioglie in rigagnoli lievi

mentre                                         schiude

 

 

in poesia…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XVIII.

 

 

L’ancora triste

del desiderio ricurva

immergo a scandagliare

porpore inanellate di parole

 

Nel solitario andare mi concedo

quando s’alza la bruma

all’anemone bianco

diafano più del mare

 

Con ardore di serpe

invano già risalgo

la corrente quasi avvertito

di quel fioco bagliore

 

Eppure è luce

drogata d’oleandro

come gesto gentile

quasi donna che ama

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIX.

 

 

 

E mi hai condotto

al cielo

per gradini di sale

– senza voltarti –

 

Sulla tua pelle acini

ho versato del giorno

a riannodare siepi

rovi e corniolo

 

E volavamo sulla

città densa

di guglie ottuse in un

volare azzurro

 

E gioie di sorgente

dalle fessure colsi

briciole ad annusare

degli assoluti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XX.

 

 

Portami ancora

alla nuvola-festa

delle carezze viola

delle perle irrorate

 

Portami istinto-nuvola

alla danza/imbrunire

quando è più caro dare

e ricevere doni

 

 

Portami drago-

nuvola all’abbraccio

d’occhi – futuro/

occhi d’attesa – accesi                              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Metalogo III.

 

 

 

 

La fronte

corrugata dal mare

e dal silenzio

cospargeva Brendano

                         

 

Di sogno finalmente…

 

– Nella burrasca pendule

 veglia/dolore alcove

 ritorno/rimanere

 

…mentre l’Uccello

Narratore lieve rendeva

la sua fatica

 

e il canto:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXI.

 

 

Heléna-

mani impagliate bethel-

della-città

flauto che sugge-

risce al viandante

 

Precoci alcove

di cuori e spine                                              

lira che sugge-

stiona il senso

 

dell’andare                    Heléna-

bocca votata al nulla-

bratislava d’occhi

e misteri

 

Salivi                          – ansante –

alla torre nord-est

e il vento ti additava

lontano                     – un regno –

 

Ma non sai volare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXII.

 

Fuggiasca come allora

dal mare aperto

sale – libido spumeggiante –

la marea

 

Geme d’un altro

viaggio/sirena – tra le dita –

il fiordo a tocchi

ingioiellato di naufragio

 

                          Umore/

 

Stimmung d’oltredolore

d’essere/nihil essere/

tutt’uno – fiore

del perdersi del ricercare –

 

Mansuete lonze/ali

arruffate d’incanto

vaghiamo di cielo

in cielo senza più ritorno

 

Sazie

di questa

luce di questo

presente

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIII.

 

 

 

Greve odore

d’assenza sul vetro

già picchietta di questo

immaginario lucernìo

 

Di questo possedere

a strati erinni e grazie

ove due dita serrano le labbra

d’omerica ingordigia

 

Avrei voluto ancora

scoprire storie imparare

tormenti arse vividità

che si rincorrano

 

Ma vedo spegnersi

ormai sulla mia spiaggia

i fuochi partirsene

 

– cialtrone – già le navi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Metalogo IV

 

 

L’Uccello cessò il canto

all’improvviso per un istante

volò in ricordo all’isola

lasciata

 

– dio degli uccelli nume

 della città nido

 avrà mai questo mio ricercare –

 

indi riprese

adagio:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIV.

 

 

 

Quando Štĕpán (1) fuggì

dalla città

freddo spirava

fuliggine paura

 

Sego tempesta

nei boccali

ringhiava il vento

per la Nerudova

 

Dentro di lui

il bambino sognò

soffice madre

generoso vino

 

Ali colore

scintille d’argento

sparse nell’aria

dal tappeto di Ouiezd

 

Cattedrali sommerse

un mondo immenso

e raggomitolarsi infine

nella casa – turchese –

 

                     del glicine

 

 

__

(¹) Il pittore praghese Štĕpán  Žavrel, che visse e morì a Rugolo di Sàrmede nelle prealpi trevigiane

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXV.

 

 

ὕβρις né clamore

vorremmo più concedere

alle frustate cieche

della città

 

In ogni tunnel

invochiamo la sorte

che il troll della montagna

ci conceda il passaggio

 

In cambio offriamo ai numi

giorni di preci/fiele

gonfi d’incontro guardiani

del mutare

 

E nudi c’inventiamo – cieli

e città a guardare

da una casa di sasso

dimora solitaria

 

                     dello scoiattolo

 

                                                   – A salire la grazia

                                                   del ciliegio come a morirvi

                                                   arduo cogliendo il frutto

                                                   per donarlo ai bambini –

 

                                                   – E danzare tendendo

                                                   le mani/ eventyrskogen /

                                                   verso il bosco

                                                   incantato

                                                                            di Štĕpán –

 

 

 

 

 

Epilogo

 

 

 

Poi l’Uccello di rame

e seta a un cenno

del vecchio pose

sigillo al canto:

 

                          – D’averci accolto aedi

                          non avrai a pentirti

                          perché qualcosa

                          dunque ti lasciamo

 

                          del nostro

                                         raccontare -.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note biografiche

 

Andrea Flego è nato a Trieste nel 1950, da genitori istriani. Attualmente vive a Pordenone. È medico, psichiatra e tossicologo. In gioventù ha compiuto studi musicali. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni di carattere scientifico e divulgativo ed una discreta esperienza giornalistica. Ha pubblicato due raccolte di poesie, “Isole nel meriggio” (Cultura 2000 Ed., Enna 1992) e “Oltre” (Campanotto Ed., Udine 1999).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Indice

 

 

Presentazione

Di Piervincenzo Di Terlizzi          pag.

Dediche e ringraziamenti             pag.

Prologo                                         pag.

Metalogo I                                     pag.

Metalogo II                                    pag.

Metalogo III                                  pag.

Metalogo IV                                  pag.

Epilogo                                          pag.

Note biografiche                           pag.

Indice                                            pag.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(quarta di copertina)

 

 

 

 

Stimmung d’oltredolore

d’essere/nihil essere/

tutt’uno – fiore

del perdersi del ricercare –

 

Mansuete lonze/ali

arruffate d’incanto

vaghiamo di cielo

in cielo senza più ritorno

 

Sazie

di questa

luce di questo

presente

About Andrea Flego

Andrea Flego
studio medico di psicoterapia e psicologia dell'alimentazione

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