LA DIETA “ZONA”
Il mio primo impatto con il dott. Barry Sears.
Premetto che da molti anni sono affascinato dal problema dell’alimentazione, Quand’ero psichiatra alle prime armi collaboravo con il mio caro amico, dott. Giuseppe Frangipane che oggi non c’è più. Egli si occupava di dietologia ed io di psicoterapia. Scoprimmo che diversi pazienti dovevamo gestirli assieme, perchè nessuna delle due discipline, da sola, era sufficiente a fare una buona clinica. A quel tempo ero anche affascinato (ante litteram, direi, si parla del 1976) dal problema deidisturbi alimentari, e dall’anoressia mentale in particolare. Infine qualche anno dopo, facendo la specialità in igiene, balzò alla mia attenzione il problema delle cosiddette malattie sociali. Il diabete, l’ipertensione, le malattie cardio e cerebrovascolari ecc….
Poi per lunghi anni, dedicandomi alle dipendenze patologiche, un tema così impegnativo da risultare “totalizzante”, feci passare in secondo piano questi miei interessi precoci, che venivano talvolta sfiorati nella clinica delle dipendenze.
Mi rimase però per lunghi anni un interrogativo che credo sia particolarmente valido e per certi aspetti irrisolto anche oggi: perchè le diete pur rivestendo una sempre maggiore importanza nella vita della gente quasi mai funzionano per davvero?
Ricordo nei miei viaggi in USA di aver visto in quel paese grandi problemi di sovrappeso e di obesità. Ricordo inoltre che la pubblicità di tutte le reti televisive era oltremodo farcita di prodotti e metodi per dimagrire che promettevano improbabili miracoli. Cosa che sta avvenendo sempre più anche qui da noi.
Un giorno, qualche anno fa, decisi di approfondire l’argomento in modo più serio e sistematico. La scintilla che fece scoccare questa decisione fu il trovare in una bancarella un libro di Barry Sears(“Prevenire con la Zona”, Sperling & Kupfer, 2006). Consideravo quel genere di libri, che appariva in un circuito e con modalità, direi, divulgative quando non francamente commerciali, come fosse non adeguatamente scientifico, quasi una cosa da imbonitori o da “guru”. Però, incuriosito, cominciai a leggiucchiare quel libro sul posto. Lo trovai pieno di cose che assolutamente conoscevo e che mi parevano corrette, unite ad altre che assolutamente ignoravo e che mi sembravano “coerenti” con le mie conoscenze. Sorpreso da questo fatto lo comprai e lo lessi d’un fiato.
La lettura mi appassionò. Ricordo che feci la seguente riflessione: il dott. Sears è indubbiamente preparato. O ce la sa raccontare molto bene, facendosi forte di una pregressa solida base scientifica, oppure ha ragione lui, e la sua visione viene ancora ostacolata in quanto troppo innovativa e dirompente rispetto alla cultura accademica tradizionale, e alle concezioni della gente comune, specie americana.
Grazie alla sponsorizzazione della Enervit SpA (non è pubblicità occulta, è solo un esplicitare i propri sponsor, com’è d’uso nella più corretta produzione scientifica), ho frequentato un corso di Barry Sears, abbinato ad un Congresso internazionale in Scienza dell’Alimentazione che ha visto la presenza di altri luminari accademici stranieri e italiani, talvolta in contraddittorio con Sears.
Ne sono uscito con l’impressione che il tutto fosse mantenuto ad un buon livello scientifico e presentasse al contempo un’alta drammaticità sociale. Soprattutto quest’ultima caratteristica, corroborata da alcune allarmanti affermazioni di Sears, m’indusse ad approfondire il tema, integrandolo con le conoscenze accademiche più evolute in materia. Per questo mi sono iscritto e frequento tutt’ora il Master Internazionale di secondo livello in Nutrizione e Dietetica presso l’Università Politecnica delle Marche
I presupposti scientifici della Dieta “Zona”.
La dieta “zona” deve questo nome alla definizione della “zona” (compresa tra un valore minimo e un valore massimo) in cui dev’essere mantenuta l’insulina per godere di un’adeguata salute.
Quest’idea della zona venne a Sears, che allora, come ricercatore del M.I.T. (Massachusetts Institute of Technology di Boston), si occupava di tumori e di terapia antitumorale, studiando i farmaci contro i tumori che erano inefficaci se mantenuti sotto un certo valore e divenivano tossici se superavano un’altro valore nel sangue. Mantenerli “in zona” cioè all’interno di quel valore minimo e massimo era il modo di rendere ottimale la loro efficacia.
Ma il passaggio successivo, passando dai tumori alla tematica dell’alimentazione, fu l’idea che gliormoni funzionano molto più dei farmaci nel determinare lo stato del nostro organismo. E inoltre che gli ormoni, alcuni ormoni in particolare, sono potentemente influenzati da quello che si mangia.
Quelli che hanno le idee ben chiare sugli ormoni (e quindi non hanno bisogno della mia spiegazione) mi perdonino se spiegherò brevemente cosa sono agli altri lettori. Gli ormoni sono molecole (o se si preferisce sostanze chimiche) prodotte dal nostro organismo e immesse nel sangue per portare messaggi in altri organi, anche lontani dall’organo in cui vengono prodotti.
Essi adempiono ad importantissime funzioni, da quelle sessuali a quelle per fronteggiare lo stress, fino a quelle coinvolte nella nutrizione e nel metabolismo. Due ormoni sono particolarmente interessanti ai fini del nostro discorso: l’insulina e il glucagone. Entrambi prodotti dal pancreas,regolano con la loro azione il destino dei carboidrati (detti altrimenti zuccheri, forse un po’ impropriamente, perchè solo alcuni di essi sono dolci). In particolare l’insulina “spazza” il glucosio (il carboidrato più importante per l’organismo) togliendolo dal sangue e favorendo il suo immagazzinamento. Va ricordato che il glucosio può essere considerato come il “carburante” principale del nostro organismo. Immagazzinarlo significa “metterlo via” per i tempi di carestia. Quest’operazione può essere fatta in due modi, producendo glicogeno che va a depositarsi nel fegato e nei muscoli, e le cui riserve sono sufficienti per circa 20 ore di digiuno, e producendograssi che vanno a depositarsi nel tessuto adiposo, specie quello viscerale. Il tessuto adiposo rappresenta una riserva ad alto contenuto energetico che può permettere di fronteggiare anche lunghi periodi di digiuno. Il glucagone, al contrario, fa uscire il glucosio dai magazzini e lo rende disponibile per essere utilizzato (cioè bruciato in presenza di ossigeno, nè più ne meno che se fosse benzina o gasolio) così da fornire energia alla macchina-corpo umano.
Questi due ormoni quindi regolano l’utilizzazione del glucosio, immagazzinandolo quando è in eccesso e rendendolo nuovamente disponibile quando ce n’è bisogno.
Per capire il passaggio successivo bisogna fare un passo indietro nella lunga storia dell’evoluzione. I nostri geni, anche quelli che presiedono all’alimentazione e al metabolismo, si sono formati, secondo Sears (e anche secondo altri), nella preistoria.
L’uomo preistorico era fondamentalmente un cacciatore-raccoglitore. Cioè cacciava gli animali (o pescava, il che è lo stesso) e raccoglieva erbe e frutti che crescevano spontaneamente. I geni umani si sono adattati, attraverso i millenni precedenti, a quel tipo di alimentazione. L’avvento dell’agricoltura, dell’allevamento del bestiame e successivamente dell’industria, ha cambiato radicalmente il nostro modo di nutrirci, ma questi eventi sono troppo recenti, rispetto ai tempi lunghissimi dell’evoluzione, perchè i nostri geni abbiano potuto adattarsi alla novità.
Il cacciatore-raccoglitore doveva procurarsi il cibo, e come capita oggi a molti animali selvatici, gli poteva capitare frequentemente di non trovarne anche per lunghi periodi. Ecco che allora il meccanismo dell’insulina permetteva di immagazzinare i carboidrati in eccesso, sotto forma di glicogeno, ma soprattutto di grassi, per utilizzarli nei successivi probabili periodi di carestia.
Cos’è accaduto poi, con l’avvento dei latticini, delle uova, dei cereali ecc…? Che il cibo è diventato progressivamente più abbondante ma soprattutto più raffinato. La carestia, oggi, nel mondo industrializzato, è quel periodo di poche ore che va da un pasto all’altro, e il procurarsi il cibo consiste nell’andare periodicamente al supermercato dove si trova di tutto, ma soprattuttocarboidrati molto raffinati, cioè ad alto Indice Glicemico. E la stessa cosa capita negli snacks che si consumano al bar. E’ difficile trovarvi alimenti che non siano carboidrati ad alto I. G.
Lo sviluppo della razza umana ha subito una drastica accelerazione dalla nascita della scrittura in qua, cioè da quando si considera convenzionalmente iniziata la storia. E l’epoca storica rappresenta solamente un frammento di tempo rispetto ai millenni trascorsi dalla prima comparsa dell’uomo sulla terra. Tale sviluppo, rispetto al progresso scientifico e tecnologico, può essere rappresentato così:
Ma rispetto alle abitudini alimentari, perlomeno nelle opulente società occidentali, può anche essere rappresentato così:
Che significa cibi ad alto Indice Glicemico?
E’ solo dal 1981 che si parla nel mondo dell’Indice Glicemico (I. G.), un valore messo a punto daJenkins ed altri con un famoso articolo che ha aperto un nuovo (e ancora discusso) modo di vedere i problemi dell’alimentazione. L’Indice Glicemico di un alimento rappresenta la velocità con cui aumenta la glicemia (e cioè la concentrazione di glucosio nel sangue) in seguito all’assunzione di quell’alimento. L’indice è espresso in termini percentuali rispetto alla velocità con cui la glicemia aumenta in seguito all’assunzione di un alimento di riferimento (che ha indice glicemico 100). Solitamente sono usati come alimenti di riferimento il glucosio e il pane bianco.
Dal punto di vista teorico, secondo Sears, alcuni cibi contenenti carboidrati sono “ad alto I. G.”. Tra questi il pane bianco, molti tipi di pasta, i dolci in genere, mentre gran parte della frutta e dellaverdura sono tendenzialmente “a basso I. G.”.
I cibi ad alto I. G. fanno rapidamente innalzare il livello di glucosio nel sangue. Ciò provocaun’elevata produzione di insulina che lo spazza velocemente via dal sangue favorendone il suo immagazzinamento, sotto forma di glicogeno e grassi, come si può vedere in questo grafico:
I cibi invece a basso I. G. producono un livello più basso di glucosio nel sangue, che però persiste più a lungo, come si può vedere in quest’altro grafico, proprio perchè viene stimolata di meno la produzione di insulina:
Sul sito dell’Università di Sydney www.glycemicindex.com è a disposizione un database contenente tutti gli alimenti per i quali è stato calcolato l’I. G.
In realtà l’I. G. di un alimento non deriva solo dal tipo di carboidrato assunto, ma anche dal tipo di cottura e svariati altri fattori. e dall’equilibrio dei carboidrati con gli altri nutrienti (proteine, grassi) contenuti nello stesso alimento. Essendo un valore essenzialmente qualitativo ed avendo un certo grado di imprecisione, da solo non dà ragione dell’aumento della glicemia dopo un pasto e del conseguente aumento dell’insulina.
Un concetto quindi più utilizzabile dell’I. G. nel determinare di quanto salirà la glicemia dopo il pasto e quindi quanta insulina sarà prodotta come risposta, è il Carico Glicemico (C. G.). Con esso si intende il valore ottenuto moltiplicando la quantità di carboidrati consumati in grammi per il loro I.G.
Ad esempio
– 50 g. di patatine fritte (I. G. 95 %) corrispondono ad un Carico Glicemico di 4750
per eguagliarlo ci vogliono
– 119 g. di spaghetti al dente, cottura 5 minuti (I. G. 40 %) oppure
– 136 g. di fagioli cannellini (I. G. 35 %) oppure
– 317 g. di ravanelli, porri, pinoli o spinaci (I. G. 15 %)
Mantenere l’insulina “in zona” significa allora introdurre carboidrati a basso I. G. o solo piccole quantità di quelli ad alto I. G., in modo da raggiungere un basso Carico Glicemico. E bisogna mantenere in zona anche altri due tipi di ormoni, il glucagone e gli eicosanoidi (vedi più avanti).
Riassumendo:
Un basso Carico Glicemico fa mantenere più a lungo la sazietà perchè l’insulina prodotta è poca (figura 1a). Al contrario un alto carico glicemico fa secernere molta insulina che abbassa rapidamente la glicemia facendo scattare nel cervello il meccanismo della fame (fig. 1b).
In questo modo il meccanismo dell’insulina, nato per combattere la carestia, diventa perverso,perchè mentre richiede precocemente altro cibo tramite la fame, trasforma in grassi che si depositano nel tessuto adiposo i carboidrati ingeriti in eccesso nel pasto precedente.
L’individuo diventa così sempre più frequentemente affamato mentre il suo grasso corporeo aumenta. Va a questo punto ricordato che esistono anche delle differenze genetiche “cruciali” tra gli individui. Circa il 25 % delle persone ha una risposta insulinica “pigra”. Questi possono quindi anche permettersi carboidrati ad alto I. G. o Carichi Glicemici più consistenti senza ingrassare. Un altro 25 % ha una risposta insulinica “perversa”. Ha cioè la tendenza a far uscire l’insulina dalla “zona” anche con cibi a basso I. G. e con relativamente bassi Carichi Glicemici. Questi individui fanno molta fatica a mantenere il peso forma. Per il restante 50 %, che ha una risposta insulinica “normale”, ilmantenimento dell’insulina in “zona” è essenziale, sia per controllare il peso che per la salute, come ha chiaramente messo in luce Gerald Raven della Stanford University di Palo Alto, colui che studiato, tra l’altro, la cosiddetta “Sindrome Metabolica X”
Ancora due parole sul glucagone. E’ anch’esso un ormone pancreatico, antagonista dell’insulina. La sua produzione viene stimolata sia dal digiuno che dall’attività fisica, quindi principalmente da unbasso livello di glucosio nel sangue. Nel nostro uomo preistorico cacciatore-raccogliotore veniva messo in azione quando l’individuo era affamato e affaticato per la caccia ancora infruttuosa. Serviva quindi per permettirgli di cacciare ancora fino al momento del pasto. Gli effetti principali del glucagone sono tre:
1. Fa liberare il glicogeno immagazzinato nel fegato (ma non quello dei muscoli che serve per l’attività fisica) trasformandolo in glucosio che alza la glicemia.
2. Fa mobilizzare i grassi contenuti nel tessuto adiposo per bruciarli direttamente producendo energia o per trasformarli in nuovo glucosio
3. Stimola il fegato a produrre nuovo glucosio a partire da grassi e proteine
E’ quindi un ormone che fondamentalmente favorisce l’utilizzo delle risorse, grassi compresi, e quindi potrebbe far dimagrire se…
… se non ci fosse il problema dell’antagonismo dell’insulina. Come abbiamo visto, la sensibilità all’insulina può variare da individuo a individuo e con l’andare degli anni diminuisce. Questo fa si che in alcuni individui i livelli di insulina prodotta siano abnormemente alti perchè il pancreas ne produce molta per compensare la sua scarsa efficacia. Fa sì, inoltre che, con l’ avanzare degli anni questa iperproduzione di insulina tende ad accentuarsi. In queste situazioni solo il mantenimento di bassi livelli di insulina con la dieta permette al glucagone di agire efficacemente.
Ma perchè è necessario mantenere l’insulina “in zona”?
E qui viene la parte più interessante, originale e per certi aspetti inquietante della teoria di Sears. Va ricordato che la dieta “zona” non è semplicemente un metodo per dimagrire. Nella visione di Sears è molto, molto di più. E il modo con cui si può godere di buona salute, favorire una lunga vita eprevenire moltissime delle malattie cronico-degenerative (dal diabete di tipo secondo, al cancro, dall’Alzheimer, alle malattie cardiache) che ormai costituiscono la gran parte della patologia di cui i medici attualmente si occupano.
Quello che mi colpì soprattutto nella lettura del citato libro di Sears non fu quanto fin qui esposto che riguardava meccanismi ben noti a chiunque abbia fatto studi di medicina, e su cui mi ritrovavo abbastanza. L’assoluta novità furono per me gli eicosanoidi e l’infiammazione silente. Degli eicosanoidi nella formazione medica classica si parlava poco, dell’infiammazione silente per nulla. Al punto tale che sulle prime, quella dell’infiammazione silente, mi parve una teoria piuttosto azzardata, se non addirittura stravagante. Ma andiamo con ordine.
Cosa sono gli eicosanoidi?
Gli eicosanoidi, anche detti “superormoni”, sono sostanze prodotte da tutte le cellule ed hanno una funzione di messaggeri, come gli ormoni, ma non vengono immessi nel sangue, pertanto agiscono solo localmente. Svolgono la loro funzione solamente per pochi secondi, poi vengono degradati. E’ per questo che è stato così difficile individuarli. Si stima che esistano da 500 milioni di anni, rappresentano quindi il primo sistema ormonale degli esseri viventi. Sono stati scoperti nel 1936, e solo da qualche decennio sono balzati prepotentemente all’attenzione. Ne farò qui dei brevi cenni. Per chi volesse saperne di più propongo alcuni link (link 1, link 2, link 3).
La loro funzione, ai fini del nostro discorso, è quella di governare le modalità con cui si manifesta l’infiammazione. L’infiammazione è quel processo, caratterizzato da rossore, dolore, gonfiore, calore e funzionalità ridotta (rubor, dolor, tumor, calor, laesa functio, come si recita in medicina), con cui l’organismo si difende dalle aggressioni esterne (ad es. le infezioni) o ripara i danni (ad es. le ferite).
Gli eicosanoidi si dividono in pro-infiammatori (quelli che nella prima fase promuovono l’instaurarsi dell’infiammazione) e anti-infiammatori (quelli cioè che nella seconda fase, battuto il nemico esterno o sterilizzata la ferita, riparano i danni restituendo l’organismo alla sua funzione originaria).
Il benessere dell’organismo è dato dall’equilibrio tra i due tipi di eicosanoidi (pro- e anti-infiammatori). Essi non possono essere sintetizzati dall’organismo e devono pertanto essere fabbricati a partire da dei “precursori” che introduciamo con la dieta.
Precursori degli eicosanoidi pro-infiammatori sono gli acidi grassi “omega 6” il cui capostipite èl’Acido Arachidonico (AA). Analogamente, precursori degli eicosanoidi anti-infiammatori sono gli acidi grassi “omega 3” di cui i più importanti sono l’Acido EicosaPentaenoico (EPA) e l’Acido DocosaHexaenoico (DHA).
L’uomo preistorico, prima dell’agricoltura, aveva un rapporto tra gli omega 3 e gli omega 6, alla pari, cioè di 1 a 1. L’attuale civiltà ci ha portato ad un rapporto di 1 a 10 a favore degli eicosanoidi pro- infiammatori (quelli che chiamiamo “cattivi”, non perchè lo siano realmente ma perchè ce ne sono decisamente troppi rispetto a quelli “buoni”). La dieta “zona” prevede che un rapporto accettabile per la salute sarebbe di 1 a 4, ma per raggiungerlo bisogna necessariamente intervenire sullo stile della nostra vita.
Ma perchè il rapporto tra omega 3 (“buoni”) e omega 6 (“cattivi”) si è così deteriorato? e quali ne sono le conseguenze, secondo Sears?
Nel suo ultimo libro “Magri per sempre” (Sperling & Kupfer, 2009) Sears afferma che il rapporto tra omega 3 e omega 6 si è molto alterato a favore di questi ultimi negli ultimi decenni perchè si cominciarono a produrre e a consumare grandi quantità di olio di semi a basso costo (di mais, di soia, di girasole, di cartamo) sostituendoli al lardo, al burro, e all’olio di pesce che erano i principali condimenti (si riferisce agli USA) usati fino agli anni venti. E gli oli di semi contengono grandi quantità di omega 6, che portano ad un aumento della produzione, nell’organismo, di Acido Arachidonico e quindi di eicosanoidi “cattivi”.
E da qui parte il concetto di “infiammazione silente”. L’eccesso di eicosanoidi “cattivi”, rispetto a quelli “buoni”, produce uno stato generalizzato di infiammazione cronica nei tessuti, stato che egli chiama “silente” proprio perchè, a differenza dell’infiammazione acuta, non dà sintomi, ma si manifesta dopo anni sotto forma di malattie degenerative, come il diabete secondo, il cancro, l’Alzheimer, le malattie autoimmuni e le allergie.
Ad aggravare il quadro contribuiscono altri due fattori cruciali: il ruolo dell’ eccesso di insulina e la cosiddetta “trappola del grasso”.
L’eccesso di insulina, stimolato da una dieta sempre più ricca negli ultimi decenni, di carboidrati ad alto indice glicemico, ha un effetto devastante sul rapporto tra eicosanoidi “buoni” ed eicosanoidi “cattivi”. Infatti l’insulina, tramite l’attivazione dell’enzima delta-5-desaturasi, stimola direttamente la produzione di Acido Arachidonico a partire dagli omega 6.
Ecco allora che un eccesso di insulina dovuto ad un abnorme consumo di carboidrati raffinati, unito ad un eccesso di omega 6 dovuto ad un abnorme consumo di olii di semi, produce un aumento deglieicosanoidi “cattivi” pro-infiammatori e quindi un aumento dell’ infiammazione silente.
Il terzo fattore che complica il quadro è la diminuzione negli anni del consumo di olio di pesce, contenente omega 3. Sears dice che il consumo dell’olio di pesce negli ultimi 100 anni è diminuito negli USA del 90-95 %.
Questi tre elementi (consumo di carboidrati raffinati, consumo di olii di semi e non consumo di olio di pesce) sono quello che Sears definisce una “tempesta nutrizionale perfetta”, parafrasando il noto film “la tempesta perfetta”, la cui tesi è che in determinate condizioni nell’atlantico si crea una tempesta perfetta che non permette scampo al peschereccio d’altura protagonista del film.
E non è finita. Sears, nel libro “Magri per sempre”, spiega come la tempesta nutrizionale perfetta siasolo una parte del problema, e descrive l’epidemia di obesità e di diabete secondo che affligge gli USA, ma anche il mondo occidentale europeo, come dovuta anche ad un’altra serie di fattori, che egli riassume nel concetto di “trappola del grasso”.
L’eccesso cronico di insulina produce un immagazzinamento precoce e irrazionale dell’energia sotto forma di grasso. Energia che come abbiamo visto viene sottratta al consumo e induce l’individuo a mangiare ancora per procurarsi altra energia. Ma la stessa insulina impedisce la mobilizzazione del grasso immagazzinato che, e questa è la cosa più temibile, produce ulteriori eicosanoidi “cattivi” che aggravano l’infiammazione silente. Egli parla infatti di “sindrome del grasso tossico”.
E secondo Sears non è vero che mangiare meno e fare più esercizio fisico fa dimagrire per davvero. Fa dimagrire ma non intacca le riserve di grasso, cannibalizza invece le proteine, cioè soprattutto la massa muscolare.
In definitiva, secondo Sears, l’epidemia di obesità che colpisce le moderne società occidentali è il frutto combinato di tre fattori: 1. un fattore genetico che predispone una larga parte della popolazione ad ingrassare, in presenza di altri fattori, 2. un’iperstimolazione insulinica dovuta ai carboidrati ad alto indice glicemico e 3. uno squilibrio tra eicosanoidi pro- e anti-infiammatori dovuto alla “tempesta nutrizionale perfetta”.
La soluzione che propone Sears a questo punto, è riorientare il funzionamento perverso dei nostri geni mantenendo per tutta la vita l’ insulina in zona – nè troppo alta nè troppo bassa – tramite un’alimentazione bilanciata, e combattere lo squilibrio degli eicosanoidi tramite l’assunzione di grandi quantità di olio di pesce, o comunque di omega 3.
Che cos’è dunque la dieta “zona”?
Accennerò qui brevemente ad alcuni principi di base, rimandando alle ormai innumerevoli pubblicazioni per i dettagli.
Un modo equilibrato di mangiare, per tenere l’insulina in zona è, secondo Sears, il pasto bilanciato 40-30-30.
Ciò significa riempire il piatto (o programmare ogni pasto) con 40 % di carboidrati, meglio se a basso indice glicemico come frutta e verdura (considerando il carico glicemico i carboidrati ad alto indice gliìcemico come pane o pasta o patate, dovrebbero essere ridotti in proporzione), 30 % di proteine, carne, pesce o latticini magri, e 30 % di di grassi, meglio se olio extravergine di oliva, non olii di semi contenenti omega 6). Integrare il tutto ogni giorno con olio di pesce purificato a causa dell’inquinamento dei mari. I pasti è meglio che siano piccoli e frequenti, considerando che il pasto più negletto, la colazione del mattino, dovrebbe essere invece il pasto più importante della giornata, e i pasti dovrebbero essere almeno cinque al giorno.
Fin qui l’idea generale, declinata ormai in molti modi, dalle barrette ai blocchi, fino alle ricette inusuali della cucina in “zona”, o più normalmente il controllo, alla luce dei concetti della “zona”, degli alimenti normalmente usati.
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La dieta “zona” ha diversi avversari. Da un certo mondo accademico attaccato alle concezioni tradizionali (e forse a dei privilegi di casta) e in lenta, quando non lentissima evoluzione, fino a quelli che la considerano (a torto) iperproteica. Quella iperproteica infatti è la dieta Atkins, che fa sì dimagrire, ma che secondo Barry Sears induce degli squilibri metabolici, non ultimo un affaticamento del sistema renale. Avversi lo sono anche i propugnatori delle varie diete regionali, che si sono conquistate antropologicamente un posto d’onore nella sopravvivenza delle popolazioni. In realtà alcune di esse (guarda caso, quelle naturalmente più vicine alla dieta “zona” ) come quella giapponese o ancor più quella di Okinawa sono quelle che sperimentalmente garantiscono la salute e la longevità più delle altre. Ma, per dirla con Sears, anche la dieta mediterranea, ricca di frutta, verdura e olio d’oliva è relativamente sana (se non fosse per l’eccesso di carboidrati raffinati come pane e pasta), specie se paragonata a quella degli USA dove per frutta e verdura si intendono solo patatine e ketchup.
Ma il mondo accademico, accadde già per la psicoanalisi, sembra assorbire lentamente (e in modo ovviamente inapparente) molte delle idee di Sears, che spesso ripete orgoglioso: questo ora lo dicono anche ad Harvard, mentre io lo dicevo molti anni fa. (Harvard, una delle Università più prestigiose del mondo è dall’altra parte del fiume, rispetto al M.I.T. di Boston, altra prestigiosissima istituzione, dove Sears faceva il ricercatore quando inziò a studiare la dieta “zona”.
Sul piano scientifico… ai posteri l’ardua sentenza, anche se molti degli argomenti di Sears hanno successo perchè appaiono piuttosto convincenti (ed è accaduto anche a chi scrive).
Il problema rimane sul piano antropologico. Non basta infatti sapere cos’è meglio fare per cambiare le proprie abitudini, specie quando sono grandemente coinvolte le emozioni, la tradizione e laconvivialità, per non parlare del “piacere” che il cibo può dare, e quindi di quanto può fare più bella la vita…
… ma di questo parlerò nella sezione dedicata alla “psicodietologia”.
dott. Andrea Flego
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Riferimenti bibliografici.
– Barry Sears – Prevenire con la zona – Sperling & Kupfer, 2006
– Barry Sears – Magri per sempre – Sperling & Kupfer, 2009
Links.
– http://www.enervitwellness.it/_vti_g7_zonaBS_aspx_rpstry_31_.sphtml#
PubMed:
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1: Metab Syndr Relat Disord. 2004 Spring;2(1):24-38. Related Articles, LinkOut - The zone diet: an anti-inflammatory, low glycemic-load diet.
The Zone Diet was developed on the concept that the hormonal responses of macronutrients could be orchestrated to maintain key hormones within therapeutic zones to control inflammatory responses. In particular, the two hormonal systems that are directly affected by dietary macronutrients are (1) the insulin/glucagon axis and (2) eicosanoids. Each of these hormonal systems can have a significant impact on the inflammatory process. This hormonal approach to optimizing an anti-inflammatory diet has significant ramifications in treatment of those chronic diseases (obesity, type 2 diabetes, and cardiovascular disease) that are known to produce inflammatory responses. On the other hand, an inappropriate balance of macronutrients (especially high glycemic- load carbohydrates) can lead to increased inflammation. A primary example of this is the promotion of the United States Department of Agriculture’s Food Guide Pyramid. Since its adoption, the prevalence of obesity and type 2 diabetes has risen substantially. Both conditions also demonstrate a significant increase in inflammatory markers. The purpose of this article is to review the historical factors that led to the development of the Zone Diet, to understand how the Zone Diet can alter inflammatory responses, and to review the published literature on its ability to affect hormonal and metabolic responses.
PMID: 18370674 [PubMed – in process]
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2: Metab Syndr Relat Disord. 2003 Sep;1(3):199-208. Related Articles, LinkOut - A proposal for a new national diet: a low-glycemic load diet with a unique macronutrient composition.
Background: A science-based diet approach to achieving a healthy diet began in the early 1900s, and this led to the development of the United States Department of Agriculture’s (USDA’s) Food Guide Pyramid. Since its adoption, the prevalence of overweight and type 2 diabetes has risen substantially. Whether the two are related is unknown, but a change may be needed in the way the government recommends that Americans eat. Methods: The purpose of this review is to propose a new diet that is based on two novel strategies: a low-glycemic load (GL) diet and a unique macronutrient composition. Most of the carbohydrates in the proposed diet have low-glycemic indexes (GIs), which creates a diet that has a low-GL. In contrast, the USDA’s Food Guide Pyramid diet recommends consuming a high carbohydrate diet (i.e., >55% of the energy), which is rich in grains and other complex carbohydrates that have high-GIs. In clinical studies, low-GL diets produced less hunger, promoted more weight loss, and improved markers of glycemic control and cardiovascular disease risk compared to the usual, high-GL diet under eucaloric conditions. The other feature of the proposed diet is its unique macronutrient composition of 40% of the energy from carbohydrate, and 30% of the energy each from protein and fat. Results: The diet recommended now has a macronutrient percentage of >55% of the energy coming from carbohydrate, 15% of the energy from protein, and <30% of the energy from fat. Compared to the USDA’s Food Guide Pyramid diet, clinical studies using the proposed unique macronutrient percentages have shown increases in metabolic rate, dietary theromogenesis, and nitrogen balance. Conclusions: The advantages of the proposed diet should benefit all Americans, but more long-term studies are needed before it can be adopted as the national diet.
PMID: 18370663 [PubMed – in process]
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3: MedGenMed. 2007;9(3):57; author reply 57. Related Articles, LinkOut - Comparison of the Atkins, Zone, Ornish, and LEARN diets for change in weight and related risk factors among overweight premenopausal women.
Publication Types:
- Comparative Study
- Letter
PMID: 18159610 [PubMed – indexed for MEDLINE]
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4: J Am Diet Assoc. 2007 Oct;107(10):1792-6. Related Articles, Substance (MeSH Keyword),Cited in PMC, LinkOut
Blood ketones are directly related to fatigue and perceived effort during exercise in overweight adults adhering to low-carbohydrate diets for weight loss: a pilot study.
White AM, Johnston CS, Swan PD, Tjonn SL, Sears B.
Department of Nutrition, Arizona State University, Mesa 85212, USA.
Ketogenic diets have been associated with reductions in free-living physical activity, a response that can be counterproductive in individuals trying to lose weight. To explore whether popular low-carbohydrate diets might impact the desire to exercise by raising blood ketone concentrations, fatigue and perceived effort during exercise were compared in untrained, overweight adults adhering to a ketogenic low-carbohydrate diet or to a control diet low in carbohydrate, but not ketogenic (5%, 65%, and 30% or 40%, 30%, and 30% of energy from carbohydrate, fat, and protein, respectively). In this prospective, randomized, 2-week pilot study, all meals and snacks were provided to subjects, and energy intake was strictly controlled to provide approximately 70% of that needed for weight maintenance. At baseline and at the end of week 2, exercise testing was conducted in fasting participants. Weight loss and the reductions in fat mass did not differ by group during the trial. At week 2, blood beta-hydroxybutyrate concentrations were 3.6-fold greater for the ketogenic vs nonketogenic group (P=0.018) and correlated significantly with perceived exercise effort (r2=0.22, P=0.049). Blood beta-hydroxybutyrate was also significantly correlated to feelings of “fatigue” (r=0.458, P=0.049) and to “total mood disturbance” (r=0.551, P=0.015) while exercising. These pilot data indicate that ketogenic, low-carbohydrate diets enhance fatigability and can reduce the desire to exercise in free-living individuals.
Publication Types:
- Randomized Controlled Trial
- Research Support, Non-U.S. Gov’t
PMID: 17904939 [PubMed – indexed for MEDLINE]
-
5: Nutr J. 2007 Jul 13;6:16. Related Articles, Compound (MeSH Keyword),References for this PMC Article, Substance (MeSH Keyword), Free in PMC,Cited in PMC, LinkOut
Effects of an open-label pilot study with high-dose EPA/DHA concentrates on plasma phospholipids and behavior in children with attention deficit hyperactivity disorder.
Sorgi PJ, Hallowell EM, Hutchins HL, Sears B.
Hallowell Center, Sudbury, MA 01776, USA. pjsorgi@aol.com
BACKGROUND: Attention deficit hyperactivity disorder (ADHD) is the most common neurological condition in children. This pilot study evaluated the effects of high-dose eicosapentaenoic acid (EPA) and docosahexaenoic acid (DHA) supplementation on the isolated plasma phospholipids and behavior in children with ADHD (primarily inattentive subtype and combined subtype). METHODS: Nine children were initially supplemented with 16.2 g EPA/DHA concentrates per day. The dosage was adjusted dependent on the ratio of arachidonic acid (AA) to EPA in the isolated plasma phospholipids at four weeks to reach a level normally found in the Japanese population. RESULTS: At the end of the eight-week study, supplementation resulted in significant increases in EPA and DHA, as well as a significant reduction in the AA:EPA ratio (20.78 +/- 5.26 to 5.95 +/- 7.35, p < 0.01). A psychiatrist (blind to supplement compliance or dosage modifications) reported significant improvements in behavior (inattention, hyperactivity, oppositional/defiant behavior, and conduct disorder). There was also a significant correlation between the reduction in the AA:EPA ratio and global severity of illness scores. CONCLUSION: The findings of this small pilot study suggest supplementation with high-dose EPA/DHA concentrates may improve behavior in children with ADHD.
Publication Types:
- Research Support, Non-U.S. Gov’t
PMID: 17629918 [PubMed – indexed for MEDLINE]
PMCID: PMC1971271
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6: Osteoporos Int. 2006 Dec;17(12):1820-1. Epub 2006 Sep 26. Related Articles, Compound (MeSH Keyword),Substance (MeSH Keyword), LinkOut
Comment on:
Low-carbohydrate, high-protein diets that restrict potassium-rich fruits and vegetables promote calciuria.
Johnston CS, Tjonn SL, Swan PD, White A, Sears B.
Publication Types:
- Comment
- Letter
- Randomized Controlled Trial
PMID: 17019517 [PubMed – indexed for MEDLINE]
-
7: Am J Clin Nutr. 2006 May;83(5):1055-61. Related Articles, Compound (MeSH Keyword),Substance (MeSH Keyword), Cited in PMC, LinkOut
Comment in:
Ketogenic low-carbohydrate diets have no metabolic advantage over nonketogenic low-carbohydrate diets.
Johnston CS, Tjonn SL, Swan PD, White A, Hutchins H, Sears B.
Department of Nutrition, Arizona State University, Mesa, AZ 85212, USA.carol.johnston@asu.edu
BACKGROUND: Low-carbohydrate diets may promote greater weight loss than does the conventional low-fat, high-carbohydrate diet. OBJECTIVE: We compared weight loss and biomarker change in adults adhering to a ketogenic low-carbohydrate (KLC) diet or a nonketogenic low-carbohydrate (NLC) diet. DESIGN: Twenty adults [body mass index (in kg/m(2)): 34.4 +/- 1.0] were randomly assigned to the KLC (60% of energy as fat, beginning with approximately 5% of energy as carbohydrate) or NLC (30% of energy as fat; approximately 40% of energy as carbohydrate) diet. During the 6-wk trial, participants were sedentary, and 24-h intakes were strictly controlled. RESULTS: Mean (+/-SE) weight losses (6.3 +/- 0.6 and 7.2 +/- 0.8 kg in KLC and NLC dieters, respectively; P = 0.324) and fat losses (3.4 and 5.5 kg in KLC and NLC dieters, respectively; P = 0.111) did not differ significantly by group after 6 wk. Blood beta-hydroxybutyrate in the KLC dieters was 3.6 times that in the NLC dieters at week 2 (P = 0.018), and LDL cholesterol was directly correlated with blood beta-hydroxybutyrate (r = 0.297, P = 0.025). Overall, insulin sensitivity and resting energy expenditure increased and serum gamma-glutamyltransferase concentrations decreased in both diet groups during the 6-wk trial (P < 0.05). However, inflammatory risk (arachidonic acid:eicosapentaenoic acid ratios in plasma phospholipids) and perceptions of vigor were more adversely affected by the KLC than by the NLC diet. CONCLUSIONS: KLC and NLC diets were equally effective in reducing body weight and insulin resistance, but the KLC diet was associated with several adverse metabolic and emotional effects. The use of ketogenic diets for weight loss is not warranted.
Publication Types:
- Comparative Study
- Randomized Controlled Trial
- Research Support, Non-U.S. Gov’t
PMID: 16685046 [PubMed – indexed for MEDLINE]
-
8: Crit Rev Food Sci Nutr. 2003;43(4):357-77. Related Articles, Substance (MeSH Keyword),LinkOut - Low-glycemic-load diets: impact on obesity and chronic diseases.
Sears Labs, 222 Rosewood Drive, Suite 500, Danvers, Massachusetts 01923, USA.sbell@searslabs.com
Historically, carbohydrates have been thought to play only a minor role in promoting weight gain and in predicting the risk of development of chronic disease. Most of the focus had been on reducing total dietary fat. During the last 20 years, fat intake decreased, while the number of individuals who were overweight or developed a chronic conditions have dramatically increased. Simultaneously, the calories coming from carbohydrate have also increased. Carbohydrates can be classified by their post-prandial glycemic effect, called the glycemic index or glycemic load. Carbohydrates with high glycemic indexes and high glycemic loads produce substantial increases in blood glucose and insulin levels after ingestion. Within a few hours after their consumption, blood sugar levels begin to decline rapidly due to an exaggerated increase in insulin secretion. A profound state of hunger is created. The continued intake of high-glycemic load meals is associated with an increased risk of chronic diseases such as obesity, cardiovascular disease, and diabetes. In this review, the terms glycemic index and glycemic load are defined, coupled with an overview of short- and long-term changes that occur from eating diets of different glycemic indexes and glycemic loads. Finally, practical strategies for how to design low-glycemic-load diets consisting primarily of low-glycemic carbohydrates are provided.
Publication Types:
- Review
PMID: 12940416 [PubMed – indexed for MEDLINE]
-
9: Newsweek. 2003 Jan 20;141(3):55. Related Articles, Cited in PMC, LinkOut - Dissecting the diets.
Atkins RC, Sears B, Eaton B, Ornish D.
Publication Types:
- News
PMID: 12545934 [PubMed – indexed for MEDLINE]
-
10: Sports Med. 2000 Apr;29(4):289-94. Related Articles, Compound (MeSH Keyword),Substance (MeSH Keyword), LinkOut - Comment on:
The Zone Diet and athletic performance.
Publication Types:
- Comment
- Letter
PMID: 10783903 [PubMed – indexed for MEDLINE]
-
11: J Mass Dent Soc. 1993 Fall;42(4):204-5. Related Articles, Compound (MeSH Keyword),Substance (MeSH Keyword), LinkOut - Build a diet for life with fat.
PMID: 8040649 [PubMed – indexed for MEDLINE]
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12: Biochemistry. 1985 Jul 30;24(16):4360-4. Related Articles, Compound (MeSH Keyword),Substance (MeSH Keyword), Cited in PMC, LinkOut - Deuterium NMR spectroscopy of biosynthetically deuterated mammalian tissues.
Curatolo W, Jungalwala FB, Sears B, Tuck L, Neuringer LJ.
The choline-containing phospholipids of mammalian membranes have been biosynthetically deuterated by raising rats on a diet supplemented with [HOCH2CH2N(CD3)3]+Cl- or [HOCD2CH2N(CH3)3]+Cl-. Deuterium NMR spectra have been obtained from excised deuterated brain, sciatic nerve, heart, and lung, from isolated brain myelin and brain microsomes, and from aqueous dispersions of lipid extracts. Measurements of residual quadrupole splittings for excised deuterated neural tissues demonstrate that the orientational order of the choline head group is similar to that observed in model membranes. The spin-lattice relaxation time of the choline head group in deuterated neural tissue is indistinguishable from that observed in model membranes. These results support the proposal that the conformation and motional dynamics of the choline head groups of the bulk choline-containing lipids of neural tissue are similar to those in model membranes. Spectra of biosynthetically deuterated brain myelin and brain microsomes exhibit similar quadrupole splittings. Since these membranes have significantly different protein contents, these results indicate that no strong polar interactions exist between membrane proteins and the choline head groups of choline-containing membrane lipids. Spectra of intact deuterated heart and lung exhibit broad lines and a range of quadrupole splittings. Due to the heterogeneous nature of these tissues, interpretation is difficult. However, no strong ordering of the lipid head group by protein is indicated.
Publication Types:
- Research Support, Non-U.S. Gov’t
- Research Support, U.S. Gov’t, Non-P.H.S.
- Research Support, U.S. Gov’t, P.H.S.
PMID: 4052403 [PubMed – indexed for MEDLINE]
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13: Biochemistry. 1976 Apr 20;15(8):1635-9. Related Articles, Compound (MeSH Keyword),Substance (MeSH Keyword), Cited in PMC, LinkOut - Effects of paramagnetic shift reagents on the 13C nuclear magnetic resonance spectra of egg phosphatidylcholine enriched with 13C in the N-methyl carbons.
Sears B, Hutton WC, Thompson TE.
Effects of paramagnetic shift reagents on the 13C NMR spectra obtained from single-walled vesicle dispersions of egg phosphatidylcholine enriched with 13C in the N-methyl carbons are investigated. Spectra obtained at 25.1 MHz show that, at Yb3+ to phospholipid molar ratios as low as 0.06, complete resolution of the N-methyl carbon resonances is obtained from molecules on the inner and outer faces of the vesicle bilayer. No precipitation of the vesicles is caused by Yb3+ at these concentrations nor is appreciable line broadening observed. Other paramagnetic shift reagents frequently used in proton NMR investigations of phosphatidylcholine vesicles do not give complete separation of the N-methyl 13C signals from the two bilayer surfaces. K3Fe(CN)b,Eu3+, and Pr3+ cause precipitation of the phosphatidylcholine vesicles at concentrations, which give only incomplete resolution of these signals. T1 measurements of the resonances separated by Yb3+ indicate that the choline groups on the inner bilayer surface are less mobile than are the same groups in the outer surface. Gated proton decoupling measurements, which show that the nuclear Overhauser effect is 2.8 +/- 0.1, indicate that the dominant mode of relaxation is dipolar interaction.
Publication Types:
- Research Support, U.S. Gov’t, P.H.S.
PMID: 178350 [PubMed – indexed for MEDLINE]
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14: J Membr Biol. 1975;20(1-2):59-73. Related Articles, Compound (MeSH Keyword),Substance (MeSH Keyword), Cited in PMC, LinkOut - 13C nuclear magnetic resonance studies of egg phosphatidylcholine.
Spin lattice relaxation times (T1) and apparent spin-spin relaxation times (T2) derived from linewidth have been used to investigate model membranes composed of egg yolk phosphatidylcholine. T1 measurements appear to be largely dominated by segmental motion and as a consequence are not very sensitive to small changes in membrane structure. On the contrary, apparent T2 times are shown to be sensitive to such changes in the membrane and are thus suggested as a useful tool for further investigation of membrane structure.
PMID: 1168261 [PubMed – indexed for MEDLINE